Di quelle che poi ti ci vuole una birra per smaltirla.
Di quelle che poi, un po' come un automa, ti dici «no, bel film, eh» in un loop un po' idiota mentre cerchi delle parole un po più intelligenti, che prima del boccale di birra non ti vengono mai.
E poi provi a scrivere, prima che l'alcol si porti via le poche cose intelligenti che ti sono rimaste in mente, in mezzo alla botta.
Allora: innanzitutto, c'era molta più Varese di quella che mi immaginassi. La brianza metaforica ha come sfondo quasi sempre la città giardino, perfino nel negozio dell'immobiliarista Ossola realmente esistente e nella periferia anonima dove ci si incazza in auto per sfogare l'impotenza e il dolore.
Pensavo che ne avrei viste solo poche scene, quelle che anche io avevo seguito per lavoro, mentre invece l'ho vista dappertutto. E menomale che l'ha chiamata brianza, che sennò non avrei retto a viverci dentro, in questa tristezza, in questa incapacità di gestire le difficoltà di ammettere il fallimento.
C'è un gelo, una nebbia di confusione, un'ipocrisia insopportabili nei caratteri dei protagonisti. E allo stesso tempo un'aria cosi famigliare e irritante, cosi come ti possono irritare solo i parenti stretti.
Ci ha preso in pieno, Virzì, a cercare di descrivere il freddo del possesso nei nostri territori cosi splendidi e cosi freddi. E Fabrizio Gifuni, Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi e Valeria Golino hanno indossato con tragica leggerezza i panni dei fortunati disperati dellenostre latitudini.