Sono giorni che vedo condividere video di Amy Winehouse in tutte le occasioni sociali su internet.
Con dolore, e a volte con una incomprensibile sorpresa, o peggio un senso di ingiustizia nei confronti del destino che a volte mi ha anche scandalizzato, considerato che negli stessi giorni 80 ragazzini erano finiti, loro sì, nella scure di un destino tragico e sorprendente.
Amy Winehouse, invece, era una povera ragazza caduta nel tunnel della droga, forse sotto il peso di un successo fatto di eccessi, o sotto il peso del suo carattere, o del suo essere artista o delle sue fragilità.
Aveva uno straordinario talento vocale ma l'aveva mandato a puttane, come tutta la sua vita, inseguita da chissà quali fantasmi che probabilmente non sapremo mai ma di cui sicuramente sentiremo parlare a lungo.
In tanti - in questi giorni di condivisione collettiva di dolore artistico - hanno condiviso i suoi principali successi, back to black in testa. Per me, la sua esibizione più commovente è questa: l'ultima, prima che sospendessero un tour che non era più in grado di reggere, dove non cantava più ed era sempre e solo visibilmente alterata (e da quel 16 giugno mi domando chi le sia stato vicino e abbia cercato, o potuto, evitare quello verso cui era inevitabilmente destinata).
Questa era Amy Winehouse: quella che si è distrutta da sola - e non per chissà quale scherzo beffardo del destino - e non poteva più resistere su quel palco dove le veniva solo da piangere.
Anche se poi saranno - giustamente - tutti i ricordi belli quelli che riascolteremo per anni e anni, consegnandola al mito: l'unico anche se eclatante lato positivo di una vita e una morte triste e tormentata.
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